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20180201 VM MonigoSabato 27 gennaio, Palazzo dei 300 (Treviso) la sala è gremita e alcune persone sono costrette a rimanere in piedi, il tema proposto dall’associazione ISTRESCO è Il campo di concentramento di Monigo, una ricerca ancora aperta. Molti gli oratori presenti, alcuni provenienti dalla ex Jugoslavia, ma il presente articolo focalizzerà solo una delle esposizioni, quella della ricercatrice storica Francesca Meneghetti. A tre km dal centro di Treviso, v’era un campo di concentramento, precisamente dentro l’attuale caserma “Cadorin”, tale campo fu operativo per un periodo che va dal 1° luglio del 1942 al 8 settembre del 1943 (rif. 1) ed in questo lasso di tempo vi transitarono più di ventimila persone. La popolazione stabile dentro il reticolato oscillava dalle 2.500 alle 2000 persone, un piccolo comune dentro il capoluogo della Marca, eppure nessuno ne ha mai parlato per diverso tempo, e nessuno pare ricordare nulla. “Come mai”? è la domanda che si pone la ricercatrice.

La faccenda pare ancor più sorprendente se si considera che il "nostro" campo era invece oggetto di riflessioni anche molto lontano dalla nostra bella cittadina, il Vescovo di Ljubljana comunicava alla Santa Sede le sue preoccupazioni a riguardo. Vi furono ispezioni sia da parte del Nunzio Apostolico sia da parte della Croce Rossa e persino negli Stati Uniti si discusse circa il campo di Treviso. Pur con tutto ciò i trevigiani pare non abbiano conoscenza di questo “luogo” e della sua storia. "Possibile" - s’interroga la Meneghetti "...che nessuno vedesse il flusso di persone che arrivava alla stazione di Treviso? Come questi internati approdavano al campo distante poco più di tre migliaia di metri dalla stazione? Venivano caricati in camion? Percorrevano il tragitto a piedi? Vi furono dei decessi dentro il campo, nessuno vedeva uscire le salme? Sicuramente dev’esserci stato un flusso di fornitori che approvvigionavano il lager, dove sono le loro testimonianze? La questione dell’oblio va inserita nel contesto storico, precisa la Dottoressa Francesca altrimenti non si afferra l’origine del mistero.

Il punto di partenza è proprio la fine del conflitto bellico e la voglia di pace e di vita che inebriava tutti i cittadini europei, non ultimi gli italiani. C’era bisogno di riconciliazione tra i membri della comunità nazionale, riconciliazione, si badi bene, per nulla facile se la gente aveva un po’ di memoria. Il periodo terminale della seconda guerra aveva visto una sanguinosa guerra civile che aveva contrapposto gli italiani gli uni contro gli altri. La stessa ridente cittadina trevigiana aveva ben impresso, forse perché eccessive, le violenze perpetuate, ad esempio, nella cartiera Burgo di Carbonera. Come creare un clima di pace se si andavano ad aprire gli armadi della memoria per rovistarvi dentro?  Senza contare poi la pressione straniera. L'Italia aveva un ruolo chiave nel nuovo scacchiere che s’era andato a delineare, il mondo era diviso tra occidente di stampo democratico e capitalista e l'oriente d’ispirazione comunista; il confine toccava proprio la nostra penisola in un punto particolarmente delicato, se il comunismo approdava nel Mar Mediterraneo, aveva contatti diretti e con il Medio Oriente, importante anche dal punto di vista energetico, e con l’Africa, continente ricco di risorse d’ogni tipo.

Il cuscinetto tra il mondo comunista e il Mar Mediterraneo era proprio la Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito, paese che aveva abbracciato la filosofia comunista ma che non s’era assoggettato al volere di Stalin e non aveva sottoscritto il patto di Varsavia. La ricercatrice ci ricorda che anche contro la Jugoslavia, l’Italia fascista, era andata in conflitto, senza per altro, sottolinea, aver inviato loro la dichiarazione di guerra. Il campo di Monigo aveva lo scopo di raccogliere prigionieri e profughi conseguenti alla nostra aggressione verso i nostri vicini. Temi quali le Foibe, o i campi di concentramento di Treviso, Gonars, Renicci o quello molto più cruento di Arbe, oggi Rab (rif. 2) altro non sono se non i due lati della stessa medaglia. Tutti questi luoghi e ciò che vi era accaduto era bene venisse dimenticato per assecondare quella necessità del quieto vivere che diventava anche un’esigenza internazionale. Bisognava ricostruire il Paese e gli aiuti americani facevano comodo, il partito che andò al governo comprese queste esigenze e ritenne nell’interesse nazionale allinearsi al volere della NATO (Rif. 3)

Questo è il quadro su cui s’innesca la figura degli “Italiani, brava gente”! Oggi è tempo di spazzare via la nebbia dell’oblio e cercare di ricostruire la Storia del nostro Paese, sostiene la ricercatrice, e a volerle cercare, le testimonianze emergono. Nello specifico il campo di concentramento di Monigo sta facendo trapelare molti dettagli anche interessanti. Chi vi era internato? Cittadini jugoslavi di ogni età e sesso. Recentemente si è scoperto che a Treviso vi erano finiti anche newzelandesi e sudafricani, approdati causa la campagna d’Africa. Anche quei prigionieri dovevano esser destinati da qualche parte, ed alcuni di essi finirono nel “lager” di Monigo. È giunto il momento di descrivere questo luogo che non era un campo di lavoro e dove non si perpetuarono torture in modo palese o sistematico. Non era certamente neppure un villaggio vacanze e la mortalità era alta soprattutto a causa della denutrizione.

Qualche aneddoto raccontato nella conferenza potrà forse aiutare il lettore nel farsi un’idea se la nomea degli italiani brava gente è vera o meno. Un medico entra nel campo scortato da due fascisti. Vede un bimbo palesemente denutrito, ha un inizio di cancrena nel piede, causata dal freddo. Gli prende il polso per verificare la condizione del cuore, se non che, a quel punto, il bimbo spalanca i due occhioni, li sbatte due volte e spira. Uno dei due fascisti ha finito la sua sigaretta, lancia in aria il mozzicone e sentenzia “Uno in meno”!

Nel campo erano internate anche donne, alcune delle quali erano prossime alla maternità. Il parto veniva effettuato in ospedale dove le donne gravide si fermavano poi con il bimbo 30 / 60 gg. Che cosa significa ciò? Che ad esse veniva garantita la vita e veniva garantita pure al loro nascituro, in ospedale le condizioni non erano di estremo disagio e l’alimentazione era dignitosa. In un periodo così lungo avevano la possibilità di riprendersi fisicamente e di essere di sostegno al nuovo nato. Sicuramente dentro il campo si stava male, l’alimentazione era scarsa, non v’era riscaldamento e questo favoriva malattie quali la tubercolosi. C’era inoltre il problema del sovraffollamento.

Ci sono però testimonianze di aiuto da parte dei trevigiani agli sventurati ospiti, non mancava chi lanciava pagnotte di pane oltre il filo spinato per permettere a qualcuno di nutrirsi. Ascoltando la relatrice mi son fatto l’idea che i lager tedeschi erano cosa ben diversa rispetto a questo campo di concentramento. Termino lasciando la parola ad una giovane jugoslava di tredici anni che rientrata in Patria scrisse questa descrizione nel suo tema consegnato alla maestra. Non sono le sue parole precise, ma una sintesi che ho appuntato in fretta e furia, spero sufficiente per “trasmettere” le sensazioni che provavano i prigionieri. “…Il paese dove abitavamo era stato bruciato e noi ci siamo trovati a Treviso. Attorno a noi il filo spinato. Ogni giorno qualcuno moriva, la minestra era annacquata e avevamo fame!

Mirco Venzo, Treviso 31/01/2018
Nella foto uno spiraglio dell’attuale caserma dove una volta giaceva il campo di Monigo.

Rif. 1 http://tribunatreviso.gelocal.it/treviso/cronaca/2014...
Rif. 2 http://www.linkiesta.it/it/article/2012/07/06/rab-la-a... 
Rif. 3 L'affermazione relativa agli aiuti economici e la scelta della DC di agevolare l'interesse americano non è un'affermazione ricavata dalla conferenza ma da Carlo Lucarelli in uno dei suoi documentari: L'armadio della vergogna. Ciò per onor del vero.

 

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