Ascari e schiavoni – il razzismo coloniale a Venezia, è una mostra allestita da ISTRESCO (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Treviso) preparata per Ca’ Foscari nel 2017, ma come precisano gli organizzatori, “Treviso non è stata immune alla retorica coloniale che diffondeva parole, stereotipi e modi di pensare imperiali…” ed ecco che è stata riproposta anche nella Marca. L’esposizione è fruibile senza costi sino al 12 febbraio, dentro Palazzo dei 300, nel cuore della città. L’obiettivo è aprire spazi di riflessione su aspetti dimenticati e volutamente rimossi, quali quello della conquista coloniale italiana. Le ragioni di quest’oblio sono stati ricordati dalla Dottoressa Francesca Meneghetti, (rif. 1) parlandoci del campo di concentramento di Treviso (altrimenti detto di Monigo, che è un quartiere del capoluogo veneto). Gli Ascari
sono i soldati mercenari africani ingaggiati per aiutare L’Italia nel suo progetto colonizzatore in Africa. Siamo nel 1882 e le zone d’interesse per i Savoia sono l’Eritrea e la Somalia. Ci fu, in effetti, anche il tentativo di conquistare l’Etiopia, ma l’operazione fallì clamorosamente con emblema la disfatta di Adua, una colonia di 16.000 italiani, dove nel 1896 si registrò la prima sconfitta da parte di una potenza europea ad opera di indigeni africani. Ascaro era un vocabolo diffuso nel dialetto veneto, dal significato denigratorio, attualmente in disuso. Il termine Schiavoni si riferisce sempre a dei mercenari utilizzati per un progetto di conquista, slavi in questo caso, che si rifanno ai tempi della Repubblica Veneta.
Il Duce con il suo regime tentò di emulare le gesta della Serenissima, cercando di conquistare il Mediterraneo. Cercò d’impossessarsi, invadendole, le nazioni che si affacciavano al mare, Jugoslavia, Albania, Grecia, Libia, aspirando ad arrivare sino all’Egitto, velleità ben presto soffocata dagli inglesi. Ad onor del vero ognuna di queste iniziative si concluse molto male ed anche i territori africani conquistati in un primo momento finirono al termine del secondo conflitto per essere persi, chiudendo definitivamente le ambizioni colonialiste italiane. Pure il vocabolo “Schiavone” era usato nella parlata corrente, sempre con significato negativo, per esser oggi praticamente dimenticato.
Il lettore s’interrogherà sul perché si vadano oggi a scomodare vocaboli dialettali veneti dimenticati, ricollegandoli al fenomeno del colonialismo e soprattutto legandoli alla città lagunare. Perché Venezia era direttamente interessata al progetto coloniale e ambiva a recuperare il prestigio perso con la scoperta delle Americhe; l’avvento del petrolio come combustibile principe e l’apertura del canale di Suez furono visti come un’occasione di rilancio. La stessa università di Ca' Foscari, sostengono gli organizzatori della mostra, nasce nel 1868 come Scuola Superiore di Commercio dove si apprendevano lingue quali il turco, l’arabo ed il persiano, fondamentali a tale scopo.
“Italiani brava gente” è un cliché diffuso, “Siamo andate in giro per il mondo per lavorare e non per crear problemi” si sente dire anche oggi diffusamente. E’ proprio così? La mostra di Treviso ricorda alcuni scottanti aspetti rimossi, al pari dei vocaboli dialettali succitati, che riconducono la nostra storia coloniale. Ecco che riporta Antonio Lorenzon di Rerontolo della sua esperienza in Jugoslavia: “…si aveva il compito d’incendiare quelle strane abitazioni, era già le 5 del pomeriggio e s’era bruciato più di 2000 case quando dietro di noi, si sentiva non a lunga distanza, alcune voci che gridavano in lingua italiana “Vigliacchi d’italiani! E’ questa la civiltà di Roma che voi portate, a bruciare tutte le nostre case”? – Mi ha colpito questa testimonianza perché conferma quanto scritto da una bimba di 13 anni deportata a Monigo. La testimonianza è riportata in un mio precedente articolo (rif. 1) e m’induce a comprendere l’astio che ha generato le Foibe.
Sfogliando un album fotografico di un militare impegnato nella Campagna d’Africa, tra un paesaggio ricco di palme e alcuni ritratti di gente locale, in un paio di occasioni si vedono delle impiccagioni. La presenza “civilizzatrice” tricolore non dev’esser stata poi troppo gradita dai locali che cercavano di ribellarsi, suscitando la furia vendicatrice dei fascisti, in primis quella del Generale Rodolfo Graziani che subì un attentato. Due eritrei lanciarono delle bombe a mano ad Addis Abeba (19 febbraio 1937) durante una manifestazione fascista di piazza, ferendo dei gerarchi del regime. Evidentemente l’opera di “addomesticamento” degli “incivili” abitanti di quelle terre non proseguiva come sperato. La replica dell’evoluta nazione di "razza bianca" fu l’uccisione per rappresaglia di un numero di civili locali stimata da tre a seimila unità.
Non mancarono neppure i campi di concentramento dove vennero rinchiusi 100.000 cirenaici seminomadi, ne morirono 40.000 causa denutrizione e condizioni igieniche devastanti. Pure la mera azione bellica è ricordata all’estero con un’alea di infamia: pur essendo state bandite dal protocollo di Ginevra (1925), l’esercito invasore, quello italiano, utilizzò contro i già poco armati combattenti locali anche le armi chimiche, sfruttando pure la forza dell’aviazione. La vittoria fu pure esaltata, posto che quando furono gli italiani a dover subire la debolezza dei propri armamenti negli scontri con gli inglesi, ancor adesso si tende a dare dei vigliacchi ai vincitori; della serie “se colpisco io sono forte, se lo fai te, sei disonesto”.
E direi di finire con il racconto di Giuseppe Berto, uno scrittore che narra delle spedizioni punitive contro i villaggi etiopi e le Chiese Copte (venivano ammazzati anche i monaci di questa religione che, lo ricordo, è di stampo cristiano e non islamico). Il racconto più triste è forse relativo ad una bambina obbligata a prostituirsi per il piacere degli ufficiali italiani, “…le disse di spogliarsi, ma siccome lei non si muoveva, la spogliò lui stesso dopo averle sciolto la cintura della veste. Aveva un corpo minuto, com’era da aspettarsi, e magro, con tutte le costole che si vedevano, ed il seno piccolo, appena pronunciato. In sostanza forse non arrivava neanche a dodici anni”.
L’idea che gli italiani in giro per il mondo abbiano solo fatto del bene e siano tutte brave persone è fortemente messa in discussione dalla mostra. Non manca una nota polemica, il pannello che ci ricorda come anche ora in giro per il mondo, naturalmente giustificate dall’alone delle operazioni NATO o dall’avvallo della comunità internazionale, il nostro esercito è presente in 28 Paesi. Tanta attività suscita curiosità allo scrivente, che cosa ci stiamo a fare in giro per il mondo, vista la fame dilagante, visto i numerosi conflitti, e visto l’arrivo dei molti profughi che quotidianamente sbarcano nelle nostre coste? Siamo proprio sicuri che la presenza italiana e più in generale occidentale, sia gradita da chi andiamo ad aiutare? Dopo aver visto osservato la mostra qualche sospetto mi sorge spontaneo.
Mirco Venzo, Treviso, 09/02/2018 #qzone
Foto esposta alla mostra di un’impiccagione effettuata in Africa.
Rif. 1 http://www.qzone.it/index.php/q-arts/403-....