Finalmente ho potuto raccogliere il ribes di mia produzione. È una grande soddisfazione mangiare i frutti del proprio orto, e il piacere aumenta quando non è un'abitudine. Un'estate di anni fa, l'ultimo giorno di vacanza a casa di amici, avevo prelevato qualche talea da una pianta che cresceva rigogliosa nel loro giardino, a 1000 m di altitudine. Talee apicali semilegnose, che ancora non avevano dato frutti, taglio obliquo sotto la terza foglia. Al ritorno in città le avevo messe a radicare in acqua, con cura e attenzione, in un angolo ombreggiato del terrazzo. Settimane di attesa, fino a scoprire un indizio di crescita: piccole radici bianche, a significare che tutto andava bene. Trasferite poi in contenitori di recupero, vasetti dello yogurt forati nel fondo e riempiti di terra soffice, da mantenere sempre umida.
La primavera seguente, le gemme rigonfie davano segni di vitalità. Le nuove piantine erano pronte per la messa a dimora, nel giardino della casa di montagna che oggi mi ospita. Qui hanno sfidato gli inverni di neve alta, le invasioni di ortiche, la furia pericolosa del decespugliatore. Da un anno all'altro vedevo crescere lentamente quegli arbusti esili, così insignificanti da passare inosservati se non è il periodo dei frutti. Ogni estate, quando ritornavo, era troppo presto o troppo tardi, ancora acerbi o già finiti. Questa volta, invece, all'inizio di luglio ho raccolto i piccoli ribes a manciate. Arrivata per prima, li ho assaggiati senza lavarli, come fanno i bambini. Oggi il raccolto abbondante è un regalo che avevo sempre atteso con segreta speranza. Per essere lungimirante, come lo è sempre chi coltiva, tengo per il futuro un ricordo di deliziose marmellate. Riempio di frutti una scodella, li passo rapidamente sotto l'acqua della fontana e con orgoglio offro in tavola il mio tesoro. Sì, perché quei grappolini rossi, quasi trasparenti, hanno la preziosità di gioielli alla luce del sole.
Daniela Grassato