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20170118 VM ShoaLa famiglia 1/4

Il 17 Gennaio 2015 assieme ad un'amica, Erminia Boccacin, responsabile di Artexpo (rif. 1) e di sua figlia Serena, andiamo a trovare uno degli ultimi reduci di uno degli ultimi reduci del lager di Auschwitz Birkenau, l’Ing. Samuel Artale Von Belskoj Levy (Rostock 1937). Ripropongo ora l'intervista realizzata recuperabile anche su una mia pubblicazione dove a questo documento si inseriscono molteplici mie considerazioni politico/economico/sociali (rif 2). L'intervista, abbastanza lunga, verrà proposta su Qzone a puntate, per non tediare il lettore.

La prima domanda che faccio all’Ing Samuele Artale è sulla bellezza, ma l’andrò a riferire solo al termine del colloquio perché a mio avviso, dopo aver letto la sua testimonianza, la sua idea di bellezza è molto più interessante. Il colloquio con il nostro interlocutore è stato ininterrotto ad eccezione di una breve telefonata.

“Non mi è facile esprimere queste testimonianze, perché il racconto mi riporta in quei luoghi e questo mi manda in crisi! La nostra era un’antica famiglia ebreo prussiana, una bella famiglia. Il nonno, papà, mamma, la zia e la sorella. Eravamo lì in questa nostra casa a Rostock nella Germania del Nord, l’attività famigliare era industriale, il nonno era ingegnere, la mamma per quel che mi ricordo era colta; suonava il pianoforte, per me, la “toccata e fuga di Bach… Poi ci hanno proibito di andare a scuola, ed allora la scuola è venuta da noi. E’ venuta un’insegnante terribile…”.

“Era tedesca l’insegnante?”
“Senz’altro! Presumo. La lingua era quella. Era stata scelta dal nonno perché non dovevo perdere nulla della scuola. Noi la odiavamo perché per qualsiasi cosa diceva sempre “NO!” Nessuno degli altri poteva intervenire a questo metodo educativo. Noi eravamo piccoli e a me piaceva giocare, ma non era possibile… Dovevamo stare molto attenti… Adesso io so capire perché mia madre si metteva spesso alla finestra del piano superiore e tirava la tenda per osservare fuori… Si aspettava l’arrivo del carro che veniva a prenderci”.

“Già qui ci sta facendo intuire una cosa importante: avevate la consapevolezza che eravate in forte pericolo…?”.
“Certamente sì! Infatti, dovevamo portare il marchio, la stella a sei punte che indicava che eravamo ebrei. Ci avevano proibito di andare a scuola… Anche alle nostre domande (di bambini) ci dicevano che era temporaneo, che sarebbe passato… Anche negli altri anni c’erano state delle persecuzioni agli ebrei, ma poi tutto era finito. Ed è per questo, presumo, che noi stavamo abbastanza tranquilli… Noi eravamo benestanti, avevamo la servitù, che pure era molto discreta. Ma eravamo stati isolati e non avevamo più contatti con nessuno”.

“E’ stato creato un crescente isolamento… quindi questo è stato il primo sintomo…?”
“Sì! Quando ci hanno impedito di andare a scuola è finito tutto! Non avevamo più nessun contatto con la città. Ogni tanto si usciva con l’automobile, la tendina… (suppongo volesse dire abbassata. Non so se le auto dell’epoca avessero delle tendine a mo’ di carrozza. L’informazione è che a quei tempi la famiglia disponeva di un’auto, cosa molto rara soprattutto per un paese molto povero com’era la Germania pre-nazista). Ci dicevano di non parlare, di stare attenti a camminare… se vedevamo dei compagni di non chiamarli…”.

“Che compagni…?”
“Di scuola! Eravamo sempre in allerta, sempre in tensione. E noi chiedevamo: “Perché?” Mia sorella, Miriam, due anni più vecchia di me, anche lei faceva domande… Ci facevamo domande tra di noi… Ma le risposte non venivano! Forse non ci volevano allarmare.” (Samuel, nel riportare a galla questi ricordi, emana la tensione che respirava in quegli anni). ”Un giorno il fattore, colui che si curava della casa, mi portò in città. Girato un angolo vedemmo un uomo in ginocchio. Il fattore mi fermò! L’uomo in ginocchio di fronte a degli uomini in divisa, era mio padre. Non so se fossero uomini della SA, o della polizia. Lo prendevano a sberle e lo schernivano… Feci a tempo a provare un immenso disgusto. Il fattore mi riportò subito a casa, ma il senso di disgusto e di rabbia che provai verso mio padre non si assopì…" (la parola “rabbia” viene pronunciata con forza, in questo momento l’intervista sale di livello, qui cresce il livello di comunicazione!). "Io consideravo mio padre un uomo potente, importante, ma quella scena aveva distrutto questa immagine che avevo. Era lì inerme, non reagiva… Poi capii che mio padre non aveva reagito per proteggere noi, però ebbi una brutta sensazione”.

Samuel si sta spostando con i ricordi ed i sentimenti nell’asse del tempo, come se si trovasse un registratore che premendo un tasto veloce si sposta avanti e indietro al fotogramma che commenta. Per anni questo senso di spregio, di disgusto verso la figura paterna, deve averlo accompagnato. Nel tempo, raccogliendo informazioni, studiando,  diventando genitore a sua volta, ha trovato delle giustificazioni per “l’imperdonabile” gesto del padre, gesto che il Bimbo Samuel aveva condannato.

“Ero seduto sulle ginocchia di mio nonno e gli chiesi “Che cos’è il carcere?” – Avevo sentito che molti ebrei erano stati portati in carcere…”

“L’aveva sentito come? …parlando con la gente…?”
“Me l’aveva detto un ragazzo!”

“Mi scusi se l’interrompo, io avevo sempre avuto il sentore che non ci fosse consapevolezza da parte degli Ebrei di cosa stesse succedendo attorno a loro. Ma a sentirla raccontare mi convinco che non è vero, magari non c’erano i dettagli, ma la sensazione di pericolo…”
“Era enorme!”

“Nonostante foste bambini voi già parlavate di questo tra di voi”?
“Si magari a denti stretti… ma da quando ci impedirono di andare a scuola… E io chiesi a mio nonno che cos’era il carcere, non lo sapevo.  Lui mi disse che era una grande casa, fatta da molti mattoni, molti sassi e forse qualche sasso poteva appartenerci… Difatti qualche mese dopo venimmo arrestati tutti e allora capii… pensando, che forse alludeva a questo…”.

“Il nonno le aveva inviato un messaggio in codice…”.
“Non so! Lui parlava così. Parlava con degli esempi…! Non parlava molto, era molto triste, era molto preoccupato… Anche quando eravamo a tavola… (e qui Samuel inizia ad addentrarsi nei ricordi, con la mente va a ricostruire la tavola dove la famiglia si ritrovava per mangiare: il nonno capotavola, la mamma da un lato, il papà da un altro, e via con questi dettagli spaziali; la zia, la sorella e lui…, Questa era la sua famiglia. A volte l’istitutrice partecipava al pasto e altre volte il posto del papà rimaneva vuoto). “Non so perché, forse era in fabbrica o per altri motivi… Noi eravamo fermi, c’erano i due inservienti che ci portavano le vivande… prima di iniziare il nonno iniziava la preghiera per ringraziare Dio, e poi si mangiava…  Non si parlava molto. Ogni tanto qualche battuta circa l’andamento dello studio, mentre prima si parlava molto, parlavamo, scherzavamo, dicevamo qualsiasi cosa… Si parlava delle piante, degli uccelli, dei compagni di scuola, dei professori…delle automobili, che ce n’eran poche e della nostra automobile… Poi non si parlava più! Sembrava che fosse cambiato qualcosa…Ecco, noi si aspettava che venissero a prenderci”.

“Con il senno di poi, potevate voi ebrei fare qualcosa? Se già voi bambini avevate consapevolezza della gravità, non era possibile organizzare qualcosa per fuggire… o la rete che i nazisti avevano tessuto era tale da non permettere fuga alcuna da quel loro progetto? Magari pagando un qualche prezzo…?”
“Oggi ritengo che, ed è per questo che provo rancore nei confronti di mio padre, dovevamo lottare prima che venissimo arrestati, noi e gli altri… Bisognava reagire, anche con violenza. Qualcuno sarebbe morto, ma forse non ci sarebbero stati tutti quei morti”. Poi a mo’ quasi di scusa per aver pronunciato parole di ribellione, di violenza, sottolinea, “Ma questo è il mio pensiero… Penso che loro, gli adulti, non avessero preso sul serio la gravità della situazione perché ritenevano che fosse una situazione temporanea… e che col tempo sarebbe tornato tutto normale…”.

“Dovesse oggi, col senno del poi, dire cosa bisognava fare, cosa pensa sarebbe stato possibile…?”.
“Oggi mi ribellerei”!

“Beh sì, alla luce dell’esperienza è chiaro, ma allora come si poteva organizzare una ribellione efficace? C’era il problema di far gruppo, mica si poteva individualmente andare contro a dei militari armati…”.
“E come si fa a sapere, se c’erano degli accordi? …Come si fa? … Come si fa a sapere se c’erano degli accordi e se non li hanno raggiunti, come si fa a sapere…. Certo oggi io mi ribellerei, con tutte le mie forze, con tutta la mia passione… ma questo perché oggi… La storia ci ha insegnato che si può andare oltre. Come possiamo noi spiegare esattamente cos’era un campo di sterminio? Non ci sono parole, non ci sono frasi che possono dare il vero senso del terrore che ci hanno dato. Di cosa ci hanno fatto. Cose impensabili e inimmaginabili! Che van al di la di ogni nostro pensiero. Non c’è possibilità di descrivere… Non ci sono secondo me parole che possono dire cosa ci è stato fatto. Noi stessi rabbrividiamo al solo pensiero che ciò sia stato possibile... fatto da un essere umano ad un altro essere umano. Non si fa neanche ad un qualsiasi altro animale, brutto che sia, un serpente che sia… si ha sempre pietà…di uccidere, di torturare… E allora dopo la liberazione, quando la gente ci chiedeva che cosa c’era e la gente rimaneva incredula, io mi sono chiuso… ed ho cercato di cancellare ogni cosa dalla mente, e così ho fatto. Oggi, dal 2005 quando ho iniziato a parlare in pubblico, allora ho iniziato a scavare e molte cose mi son venute in mente e allora ho capito che cosa mi era successo e che cosa era successo… il fatto di mio padre schiaffeggiato che non ha reagito ho capito che lo fece per difendere noi…"
(da queste parole comprendo che Samuel ha perdonato suo padre molto, ma molto addietro negli anni, chissà, forse proprio nel 2005, quando ha deciso di ricordare. E ricordando ha dovuto ridare senso agli avvenimenti).
"Lo fece non tanto per lui, ma lo fece per noi… Capisco perché mia madre stava così tanto tempo alla finestra ad osservare fuori. Voleva anticipare l’arrivo dei nazisti che potevano venire a prenderci…
Avremmo dovuto prendere delle armi e difenderci, reagire lì nella stessa Germania e reagire contro questa gente… Anche brutalmente. Qualcosa è successo.  Durante la notte dei cristalli quando bruciarono libri, andavano a caccia degli ebrei con la stella…e li tiravano fuori e iniziarono a picchiarli… quello era un grande segnale… Forse bisognava agire… Ma gli Ebrei non erano soldati, erano commercianti, medici, professionisti, hanno sottovalutato. Per me hanno sottovalutato. Pensavano alla loro temporaneità…”.

“Col senno del poi… c’è una ragione per quest’astio nei confronti di questa etnia… poi è vero che abbiamo scoperto i nazisti ce l’avevano un po’ con tutto il mondo, però questa ferocia era riservata solo a voi Ebrei? Dipendeva dalla vostra agiatezza economica…?”
“La Germania era all’apice in quel periodo della tecnologia. Ha preparato tutto con metodo, con precisione, con l’indottrinamento delle loro guardie…e loro agivano, agivano! Non posso credere che loro non capissero che una persona soffriva quando veniva bastonata, quando veniva dato dei pugni, degli schiaffi… I nazisti facevano intendere che le cose andavano meglio di come stavano andando… Loro (sottinteso gli Ebrei) non venivano portati nei campi di sterminio, ma a lavorare, poi sarebbero stati riportati a casa… Si cercava di sdrammatizzare”.

“Sino a che punto era abilità dei nazisti trasmettere, alimentare queste speranze e sino a che punto eravate voi Ebrei a cercarle per rimanere inermi, auspicando un “tanto domani cambia” e quel domani non arrivava mai…?”.
“Ci veniva detto (e questo è chiaro in me) perché mi era stato riferito, che saremmo stati trasferiti in altre città verso l’est, ciò vale a dire Polonia del sud, per raggiungere temporaneamente i luoghi di lavoro, finché era in corso la guerra, ma poi saremmo tornati indietro… E questo è stato detto ed alcuni hanno creduto, perché hanno creduto…Perché com’era possibile disfarsi di un popolo che aveva anche tecnologia, studio, capacità…
Ma quando eravamo sul vagone si è iniziato a capire… E una volta scesi fu chiaro che ogni speranza altro non era se non un’illusione!”

Mirco Venzo, Treviso 18/01/2017 #qzone
Foto Erminia Boccacin

rif 1 (https://www.facebook.com/artexpotv)
rif 2 (https://www.ibs.it/tra-passato-futuro-libro-mirco-venzo/e/9788866827542) - Non è un libro che publicizzo molto perchè c'è qualcosa in quel che ho scritto che mi convince poco, anche se non ho focalizzato cosa.

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