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20170211 VM GalileaLa sera del 27 marzo 1942 il piroscafo Galilea lasciò Corinto, scortato dalle navi Crispi e Viminale; il giorno successivo, il 28, al gruppo si aggiunsero i  Piroscafi Piemonte, Ardenza e Italia. Così costituito, il convoglio partì da Patrasso verso le 13:00 scortato dalla Nave Ausiliaria Città di Napoli, dal Cacciatorpediniere Sebenico e dalle torpediniere San Martino, Castelfidardo, Mosto e Bassini. Le navi erano scarsamente protette da una ridotta ricognizione aerea, che difese il convoglio con dei caccia fino all’imbrunire. Sul Galilea, che faceva rotta verso l’Italia, si trovava l’alpino Ermenegildo Biasot. Era il sospirato rientro verso la tanto amata Patria, la sua terra dove aveva lasciato la giovane fidanzata ad attenderlo, e dove spesso – nei lunghi mesi di combattimenti – aveva temuto di non riuscire a tornare.

Era partito pieno di speranza e di paure … le paure era facile immaginarle, la speranza era quella di tornare vivo. Adesso però si sentiva stanco e privo di aspettative mentre, appoggiato al parapetto sotto una pioggia battente, gli occhi brucianti di stanchezza e nostalgia, scrutava il mare grosso cercando di decidersi a trovare un riparo qualunque per la notte. Aveva avuto tanti sogni e progetti per il futuro; tutto era stato spazzato via dalla guerra, dalle tante brutte cose cui i suoi occhi avevano dovuto assistere sul fronte greco, ove le truppe italiane combattevano sul Mali, sullo Scindeli, sul Golico. Molti dei suoi compagni partiti con lui non c’erano più, molti altri giacevano feriti sottocoperta. Ora non riusciva a fare altro che scrutare il mare, o meglio la distesa d’acqua che si andava facendo sempre più nera e minacciosa man mano che scendevano le tenebre;  si sentiva agitato e disturbato dal rumore delle onde e della navigazione, dagli ordini secchi urlati sopracoperta dagli ufficiali e dal rombo dei caccia che dalla partenza avevano sorvolato il convoglio di navi e che ora, uno ad uno, rientravano verso nuove missioni.

Ermenegildo non riusciva neppure più ad avere paura tanto era stato il terrore che aveva provato in quei mesi eppure sapeva che, con la dipartita dei caccia, il convoglio era privo di difese ed il Mediterraneo pieno di insidie, di sommergibili nemici pronti a silurare. Non era bastato doversi difendere strenuamente a terra, la guerra non finiva mai e questa sensazione di non essere mai al sicuro aveva distrutto i nervi di gran parte degli alpini del Battaglione “Gemona”, che ora rientrava in Italia e cui anche Ermenegildo apparteneva. Gli alpini del “Gemona” erano soldati della montagna, non certo lupi di mare … del mare non conoscevano nulla e lo temevano, ora, quanto e forse più delle bombe di profondità che si sentivano esplodere ritmicamente, facendo sobbalzare il cuore. Quella poteva diventare la loro ultima dimora, una tomba d’acqua che li avrebbe ingoiati tutti se soltanto si fosse profilata all’orizzonte la scia di un siluro.

E tutti quei ragazzi sapevano che il Mediterraneo ne era pieno. Adesso, senza più la difesa dei caccia e mentre calava la notte, Ermenegildo si sentiva inquieto. Non riusciva a tornare sottocoperta dove i lamenti dei feriti gli serravano la gola: c’era anche il Meni là sotto, ferito gravemente ad una gamba tanto che c’era la possibilità che gliela amputassero; erano dello stesso paese, erano partiti insieme e insieme ne avevano viste tante, ma adesso Ermenegildo non aveva neanche il cuore di sedersi lì vicino e raccontargli storie, che sarebbe tornato come prima, che non c’era nessun pericolo di cancrena. Meni aveva paura per la sua “morosa” … temeva che senza una gamba lei non l’avrebbe voluto più e chissà, forse aveva ragione. Pensò alla Cesira, la sua ragazza dai capelli mori e dagli occhi di carbone. Sperava che la guerra sarebbe finita presto e che avrebbero finalmente potuto farsi una famiglia, ma prima doveva uscire da lì.

Il mare ingrossava e mentre la navigazione proseguiva aumentava la pioggia e si profilavano banchi di foschia marina. Ormai era buio pesto e Ermenegildo pensò che forse poteva cercare un riparo dalla pioggia; da sottocoperta sbucò Virgilio, un ragazzone moro che rientrava con lui dal fronte greco. “Ohi ‘Gildo, cossa te fa qua? Bisogna ‘ndar in leto che piove, xe bruto tempo …” Ermenegildo si volse verso il compagno con un triste sorriso: “andar a letto” per loro, questa notte, significava semplicemente buttarsi sulle assi della coperta, avvolgersi nel pastrano ormai zuppo, appoggiarsi a un compagno che già dormiva e calarsi il berretto, cercare di chiuder gli occhi sotto la pioggia che non accennava a  smettere … almeno però si era un po’ riparati dal freddo.

No go’ sòno ‘Gilio, no’ póso miga dormir stanote …
Cossa ghe xe ? La morosa no te ga’ scrito? Sei preocupato?”… e rideva Virgilio.
Son preocupato sì, chi sà se ‘rivemo casa stavolta"!
Ma va là ‘Gildo, el più xe fato, adeso spetemo tera …

La filosofia di Virgilio era semplice, spicciola; era un bravo ragazzo forte, generoso e ottimista e Gildo sperava che avesse ragione, che bastasse soltanto aspettare di veder la terra profilarsi all’orizzonte per sentirsi al sicuro. Però, se appena girava lo sguardo all’intorno, vedeva decine e decine di quei mucchi umani addossati l’uno all’altro, bagnati fino alle ossa e con gli occhi lucidi di paura, freddo - o forse era pianto ? – e pensava che per lui e per ognuno dei suoi compagni la salvezza non stava su quella nave e su quel mare ma sulle terre dov’era cresciuto e di cui conosceva ogni centimetro. Ma il mare – no – nessuno di loro lo conosceva e non era solo la sua forza a fare paura ; era che si sentivano troppo esposti al nemico, così imprigionati su quella grande baracca galleggiante senza nessuna via di fuga. Oh, la sua terra avrebbe saputo proteggerlo, avrebbe saputo offrire rifugio e riparo a Ermenegildo ! Ma qui, qui la speranza era fioca e fragile come la fiamma di una candela al vento e quel mare - lo sentiva - poteva tradirlo da un momento all’altro ; per questo non poteva abbandonarsi alla speranza, dormire.

Tese l’orecchio al silenzio irreale che s’era fatto d’intorno ; il mare pareva essersi placato d’incanto,  la calma adesso quasi faceva paura. Le luci di bordo erano tutte spente per non rendere la nave un facile bersaglio nell’oscurità ; più che vedere Virgilio, egli ne indovinava la presenza accanto a sé. Fu allora che sentirono il botto. L’attacco fu veloce; alle 23:45 il Galilea fu colpito da un siluro sulla sinistra che causò uno squarcio di circa sei metri per sei, subito sotto il ponte di comando, nel secondo compartimento. La nave cominciò immediatamente a sbandare raggiungendo un’inclinazione di circa 15 gradi. Prima che ci si potesse rendere conto di ciò che era avvenuto l’acqua cominciò ad invadere la nave colpita a morte; a bordo si era ormai scatenato l’inferno, le urla dei feriti rimbalzavano da prora a poppa e soldati impazziti correvano dappertutto in preda al terrore. Altri erano corsi alle lance e, sottocoperta, erano state aperte le casse dei giubbotti di salvataggio ; come molte navi adibite al trasporto truppe, il Galilea non aveva abbastanza lance e giubbotti per tutti i passeggeri.

Le ore passavano, la nave squarciata affondava e a bordo la confusione era totale. Ermenegildo e Virgilio erano rimasti dapprima allibiti, quasi increduli nel veder realizzato quel timore che per tutto il viaggio, da che erano partiti, li aveva inconsapevolmente perseguitati. Sembrava impossibile, eppure era vero: il Galilea stava per essere inghiottito da quelle acque gelide, profondissime, si inabissava trascinando con sé quel carico umano che non aveva scampo. Virgilio urlava e stringeva selvaggiamente il braccio di Ermenegildo affondandoci le unghie …

Dio Bon, Dio Bon, andèmo a fondo !! ‘Gildo, qua ‘ndèmo a fondo e adio! Dio quanta acqua …” Ermenegildo tremava come una foglia, cercava di riordinare le idee e di calmare il compagno urlandogli parole sconnesse sopra il fracasso. “Stà  bon, ‘Gilio, stà bon che ‘deso ‘riva i socorsi. Vien via da qua, trovèmo un posto in alto dove star, prima che l’acqua ne ‘riva ‘dosso.” Ma  Virgilio  non lo  ascoltava e lo fissava con gli occhi sbarrati; aveva perduto la voce, la sua mano era una morsa e continuava a stringere il braccio del compagno. Terrorizzato,  Ermenegildo si guardò intorno … i suoi occhi cercavano un pennone, un’antenna, un posto ove trovare salvezza. Trascinò a forza il compagno verso quello che ai suoi occhi pareva un fumaiolo e gli intimò di arrampicarsi, di arrampicarsi più in alto che poteva. La nave era ormai invasa ; l’acqua gelida entrava negli scarponi e paralizzava le gambe; Virgilio era come rimbecillito, aveva negli occhi un’espressione vacua, le sue membra erano di pietra, non muoveva un muscolo.

Ermenegildo sollevò il compagno e lo issò sul fumaiolo urlandogli di salire e infilandosi sotto a lui per spingerlo verso l’alto ; con grande difficoltà riuscirono ad arrampicarsi e si volsero a guardare lo spettacolo sotto di loro. La coperta era invasa dall’acqua, soldati e ufficiali correvano urlando il loro terrore su e giù per la nave cercando di mettersi in salvo sulle poche lance che già erano state calate, ma era ormai chiaro che per gran parte delle persone a bordo la sorte sarebbe stata terribile. Molti si buttavano a mare sperando di mettersi in salvo … troppi di loro non sapevano neppure nuotare e annegavano, altri lottavano con le acque e si arrendevano  infine al loro gelido abbraccio.

Da sottocoperta giungevano grida strazianti, i feriti che non potevano lasciare le brande non volevano arrendersi ad un destino orrendo, i pochi che riuscivano a camminare correvano in coperta,  le teste fasciate, le bende macchiate di sangue …  Ermenegildo si aggrappò ancora di più al fumaiolo e urlò a Virgilio di salire. “Va su ‘Gilio, va su, la nave la va a fondo!” Il compagno aveva tutto l’orrore di quell’attimo negli occhi, mormorava parole sconnesse: “Mama, mama mia, no te vedo più, mama mia …”  Con stupore Ermenegildo vide i nerissimi capelli di Virgilio diventare tutti bianchi: il  terrore li aveva improvvisamente incanutiti. Così arrampicati, aspettarono che la nave si arrendesse al suo destino. L’agonia del Galilea continuò fino alle 3.50 del 29 marzo, quando finalmente affondò.

Si erano gettati entrambi in acqua prima che la nave, inabissandosi, potesse trascinarli tanto sotto da non riuscire più a risalire. Ermenegildo, dopo l’affondamento, non riuscì più a ritrovare Virgilio; il compagno era scomparso, trascinato sotto dal vortice e non era più riaffiorato. Si guardò intorno; in mare molti dei suoi compagni lottavano contro le acque fredde per rimanere a galla, cercando relitti galleggianti cui aggrapparsi. Ermenegildo agguantò un pezzo di legno piatto,  forse una porta, e vi  si avvinghiò; chinò il capo sul braccio e si abbandonò al suo destino. L’acqua gelida gli irrigidiva lentamente le membra privandole del loro vigore, della forza, della capacità di muovere qualsiasi muscolo. Quel freddo entrava nel cuore: la sua casa, la sua fidanzata, sua madre e il ricordo di suo padre, che se n’era andato abbandonando lui di appena sei anni e i suoi fratelli ancora più piccoli  … com’era lontano il suo mondo da lì!

Sarebbe mai riuscito a tornare? La guerra, che brutta cosa … Forse no, forse non sarebbe tornato, sarebbe morto adesso, aggrappato a quel pezzo di legno, il suo corpo indurito dal freddo non avrebbe più avuto la forza di reggersi e lui si sarebbe lasciato andare, giù, nell’abisso gelido. Che strana morte per un alpino, per un soldato delle montagne. Era l’alba, un lieve chiarore illuminava già l’orizzonte, i pochi sopravvissuti in mare aspettavano ancora i soccorsi e disperavano di vederli giungere. La torpediniera Mosto, rimasta presso il Galilea, aveva tentato di salvare alcuni dei naufraghi. Troppo grande però era il rischio di essere intercettata dal sommergibile inglese Proteus, che dopo aver affondato il Galilea intendeva completare l’opera; costretta a continui spostamenti per non farsi silurare, la nave aveva dovuto infine abbandonare gli sventurati al loro destino.

La mattina, intorno alle 08:30, arrivarono il MAS 516 e due dragamine; subito dopo un idrovolante della Croce Rossa, da Brindisi, che si capovolse purtroppo durante il tentativo d’ammaraggio. Le opere di soccorso continuarono fino all’avvistamento di alcune scie di siluri. Dei 1275 uomini imbarcati sul Galilea solo 284 furono salvati, tra questi vi era l’alpino Ermenegildo. Il suo battaglione, il Gemona, fu decimato con la perdita di 21 ufficiali, 18 sottufficiali e 612 alpini; con gli alpini morirono anche alcuni carabinieri e dei prigionieri di guerra greci. Molti dei soldati non furono mai ritrovati, i corpi di altri furono restituiti dal mare sulle coste greche. Ermenegildo rientrò al suo paese, riabbracciò la madre, i fratelli e la fidanzata ma non potè restare : la guerra per lui non era ancora finita e tempo dopo ricevette l’ordine di partenza per il fronte russo, alla volta del quale partì vestito della divisa estiva e male equipaggiato. Non ci arrivò neppure … mentre era in strada gli giunse notizia della ritirata delle truppe italiane. L’incubo era giunto al termine ; agli ultimi contingenti inviati al fronte non restò che tornare. Ermenegildo rientrò in Italia camminando per  mesi, tra una tradotta, mezzi di fortuna e lunghe giornate a piedi attraverso terre inospitali e sconosciute.

Finalmente potè sposare la sua Cesira, emigrò in Francia ed ebbe quattro figli e molti nipoti. Nel 1989 gli venne conferita la medaglia al valore; quando gliela appuntarono sul petto scattò sull’attenti e, come 50 anni prima, il suo cuore di soldato batteva forte ed era pieno d’orgoglio … sui suoi capelli grigi trionfava il vecchio glorioso copricapo con la penna nera e negli occhi nerissimi e lucidi scorrevano le immagini di tanti volti che purtroppo non erano lì, con lui. Non parlò mai più della tragedia vissuta, ma il ricordo di Virgilio e dei molti compagni perduti dimorò nel suo cuore fino alla morte, avvenuta nel 1990.

Monica Zuccato #qzone

 

Alla memoria di mio zio, l’Alpino Ermenegildo Biasot, scampato al naufragio del piroscafo Galilea, sul Mediterraneo, il 28 marzo 1942, del suo compagno Virgilio e di tutte le giovani vittime di quell’immane tragedia.

 

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